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26 giugno 1963: Kennedy conquista Berlino

di Marco Innocenti

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25 giugno 2009

Parla dal balcone del municipio del distretto di Schoeneberg, a Berlino Ovest. È il 26 giugno 1963, in piena Guerra fredda. Davanti a lui, nella piazza, è raccolto mezzo milione di persone. Il discorso è appassionato. "Tutti gli uomini liberi, ovunque essi vivano, sono cittadini di Berlino e quindi, come uomo libero, io sono un berlinese". La folla risponde con un'ovazione. Quel "Ich Bin ein Berliner", pronunciato in tedesco con l'accento di Boston, entra nel cuore e nella coscienza della gente. La piazza esplode di gioia. I berlinesi ruggiscono la loro approvazione e scandiscono il suo nome: "Kennedy, Kennedy". JFK, con quelle parole, garantisce la città del Muro che non è sola, sulla frontiera più avanzata della Guerra fredda, a fronteggiare l'Orso sovietico.

Quel giorno il presidente americano, accolto come un liberatore, crea una breccia nel Muro. Il suo discorso, con dei passaggi a braccio, è più forte di quello preparato dai consiglieri. Punta l'indice contro il mondo comunista, è un messaggio di impegno e di sfida, esprime solidarietà a un popolo minacciato, è un capolavoro di retorica che ne fa uno dei migliori discorsi di JFK, forse il più celebre. "Non vivremo mai più un giorno come questo", dirà poco dopo a Teddy Soerensen. Parole dolorosamente profetiche. È il suo ultimo viaggio in Europa. La tragedia di Dallas è alle porte e la sua vita resterà a metà.

L'uomo

La sua vita si tradurrà in leggenda, la sua morte in un mito, ma chi è John Fitzgerald Kennedy, l'uomo che andrà a morire in un giorno trasparente d'autunno a Dallas, la città più kitsch d'America? L'uomo è discutibile. Il padre, il vecchio e discusso Joe, gli ha dato un precetto come viatico: "Quando ti chiedono cosa vuoi, rispondi tutto". E ha aggiunto: "Se non ti fanno capitano, non giocare". John appartiene a una di quelle famiglie che parlano solo tra loro e con Dio: è un incontinente consumatore di donne, un ricco, potente e disinvolto protagonista del sogno americano, coltiva amicizie chiacchierate, introduce nelle stropicciate lenzuola della Casa Bianca il meglio di Hollywood e considera il piacere come gli antichi monarchi: una parte dell'appannaggio naturale del potere, la tredicesima mensilità del salario di un leader. La sua falsa innocenza ne arricchisce il carisma, il sorriso è l'arma vincente: un passepartout che seduce e incanta.

Il politico
JFK politico è affascinante e innovativo. Norman Mailer commenta: "Finalmente abbiamo un presidente con una faccia". Lo stile di John, mobile, irrequieto, emotivo, è su misura per un Paese giovane e coraggioso, che punta confusamente ma con immaginazione verso un altro modello di vita. Sotto lo charme di uomo di mondo, JFK nasconde una politica seria e un programma preciso: liberale e riformista all'interno, aggressivo e planetario all'esterno.

Una breve stagione
La sua stagione si apre con una speranza e si chiude con un delitto. L'esperimento di JFK, presidente incompiuto, finisce lasciando un'intensa carica emotiva e una forte suggestione. Nessun altro mito lo saprà sostituire, il che, forse, è la sua eredità migliore. Con lui (e con il fratello Bob) si conclude un'epoca: la breve stagione del fervore, della passionalità, del coraggio. Si consuma il mondo degli ispiratori che tentano di cambiare il mondo. Poi verranno i "cavalieri stanchi", gli anti-eroi, Nixon, Kissinger, gli uomini che, invece, tenteranno di capirlo.

25 giugno 2009
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